Della figura del leader…

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Basta discorsi…!! Oggi una storia. … e chi vuole capire capisce. E chi non capisce, speriamo almeno che si diverta!

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Nell’estate del 2004 ero, come sempre in montagna.
Chi ha letto i miei racconti dalle Dolomiti sa di cosa si tratta.

Si parte la note col treno, si arriva la mattina a Bolzano, si fa colazione con i krapfen in piazza Walther, una passeggiata sotto i portici per comprare le ultime cose, l’ultima cartina Kompass, aggiornata, una paio di sacchetti di frutta secca, il Polase (fondamentale per reintegrare potassio e magnesio! contro i crampi…), poi si prende il pullman e, all’ora di pranzo, si arriva al campo base: il paese dal quale si è deciso di iniziare il giro. Di solito a 1000, 1500 metri di altitudine. Val Gardena, Val Pusteria, Val Badia, Val di Funes… di volta in volta in una valla diversa.

Da lì si attacca e, in due, tre ore si sale per raggiungere il primo rifugio, a 2000 metri o giù di lì.
Doccia, cambio asciutto (piova o non piova si è sempre tutti bagnati. Basta il sudore!), cena calda, e poi fuori a fumare la pipa (io) e a guardare le stelle (tutti), che lassù, nel buio totale, sono milioni, e chiacchierare. Alle nove a ninna.

E così, giorno per giorno, per una settimana, dieci giorni… Si parte la mattina alle otto, dopo una buona colazione, si cammina per sei, otto ore, e si arriva in un altro rifugio. Si resta sempre in quota, non si scende mai sotto ai 2000 e si sale fino ai 3000, anche più su… per poi ridiscendere un po’, e poi risalire. Su e giù, su e giù, macinando chilometri in un panorama grandioso.

Lo faccio da sempre. E, ogni anno, trascino con me qualche sprovveduto che, va detto, all’inizio bestemmia ”Ma dove ca@@o mi hai portato, Marco…??! Si fa un culo bestiale!!”, poi si innamora e da neofita diventa quasi sempre un compagno fedele delle avventure successive.

Com’è, come non è, quell’anno eravamo in 22 (ventidue!). Mi ero trascinato dietro ventidue persone! Alcuni erano alla loro terza esperienza, altri alla seconda, altri ancora alla prima. Tutti, comunque, facevano affidamento su di me. Per i percorsi, per i tempi, per i rifugi,…

Un lungo giro di due settimane. Partiti dal paesino di Tires, abbiamo iniziato dal Gruppo del Catinaccio, per poi passare al Sasso Piatto e da lì al Gruppo Sella e poi alle Tofane, passando per il Pralongià…

A metà settimana ci trovavamo a Passo Sella. Via vai di macchine e, soprattutto, di moto, che girano per le Dolomiti con il nostro stesso spirito, in un tourbillon di tornanti… Spettacolare anche quello…

Molti, i più, erano stanchi. E, in aggiunta, mio figlio aveva qualche linea di febbre. Decidiamo di separarci. Il grosso del gruppo avrebbe preso il pullman verso il Passo Pordoi, da lì sarebbe salito con la funivia a quota 3000 e, in meno di un’ora di cammino, sarebbe sceso al Rifugio Boè a 2873 metri. Una passeggiata di tutto riposo… Li avrebbe guidati Stefano, che era già alla sua terza esperienza, conosceva la strada e mi potevo fidare.

Io, con un manipolo di indomiti, sarei salito a piedi. Mille metri di dislivello attraverso alla magica e incontaminata Val Lasties. La mia amica Francesca e i suoi due figli di sedici e quattordici anni, mia nipote e una sua amica. Di sedici anni anche loro. Due adulti e quattro ragazzi.

La valle è magica: cascate, laghetto, praterie deserte nelle quali l’unica compagnia sono le marmotte, che fischiano, fischiano,… e i camosci. Non c’è nessuno. Fantastico!
E si sale, si sale, si sale… A fatica, si sale e si sale ancora…

Dopo un paio d’ore i prati lasciano il posto alla roccia e il cammino si fa più impervio. Mi sorprende la quantità di segnali che indicano il sentiero. Anzi… più propriamente direi la rotta, perché di sentiero non c’è più traccia. Si cammina sui massi.
Di solito ce n'è uno ogni venti metri. Ogni dieci, tiè… Qui ce n’è uno ogni quattro cinque metri. Che strano…

Ma presto capisco l’arcano. Scende una nebbia fitta, fitta… ma fitta! Che non si vede più niente. Camminiamo uno dietro all’altro, in fila indiana… Meglio: ci arrampichiamo, mani e piedi, a un metro l’uno dall’altro. E il primo della fila, vicino vicino al secondo per non perdere il contatto visivo, ha il compito di cercare con gli occhi il segnale successivo. ”Eccolo, è qui. Per di qua…”

Ci mettiamo più di un’ora per salire trecento metri, ma finalmente siamo sull’altipiano. Ne ho certezza. Tiro fuori la cartina e ne ho conferma. Non che avessi dei dubbi, ...ma quando arrivi stai meglio! Sono tutto bagnato, stanco e un po’ stressato dalla continua concentrazione che ho dovuto mantenere costante e ho bisogno di riprendere fiato.

Aldo, inconsapevole del possibile pericolo dei crepacci, salta di qua e di là per cercare di vedere il rifugio, Francesca è spaventata. Lo sgrido e gli dico di rimanere seduto vicino a me. Tutti seduti. Bene. Ma commetto un errore…

Francesca, ormai, ha perso il controllo, non capisce dove siamo, quanto manca, come ne verremo fuori… Io so che il rifugio è lì dietro, ma non so decidermi se prendere la via più breve, più esposta, o scegliere quella più sicura ma più lunga.

”Marco, ca@@o, ma che facciamo? Dove dobbiamo andare?”
”Non lo so, Francè. Non lo so!”

Panico!

Ecco. Avevo sbagliato. Ero il capo di quella spedizione. L’unico che era in grado di sapere dove fossimo e quanto tempo mancasse al rifugio. E di decidere quale strada prendere. Avevo gli strumenti per farlo e la capacità di gestire la situazione. E non avevo paura. Ero solo stanco. Stavo solo prendendo fiato…

Ma ho dato la risposta sbagliata.

Loro da me si aspettavano certezze. Ero il loro punto di riferimento. L’unica ancora di salvezza. Avrei dovuto tranquillizzarli. Dire loro che eravamo quasi arrivati e che tutto era sotto controllo. Che era poi la verità… E, invece non lo feci. E Francesca entrò in panico!

Avrei dovuto tranquillizzarli anche se io non fossi stato tranquillo. Anche se anch’io non avessi avuto le idee chiare. Avrei dovuto farmi carico delle loro paure e non ribaltare le mie incertezze su di loro. Anche se le avessi avute… Un leader fa così. Un leader deve essere forte e sicuro anche (e proprio) quando la sua squadra non lo è!

Un sorso d'acqua, un pezzo di cioccolata ed eravamo pronti. Scelsi la via più lunga.
Salimmo un po’, per una mezzora, e poi ridiscendemmo. Il cammino era faticoso, aspro, ma non difficile. E nemmeno particolarmente pericoloso. Poi, mentre mi chiedevo come mai non si vedesse ancora il rifugio, cercandolo con gli occhi in lontananza, dove le nubi erano più rade, si aprì uno squarcio nella nebbia ed apparve proprio di fronte a noi, a meno di cinquanta metri. Eravamo arrivati.

Il gruppo si è ricomposto. Baci, abbracci, risate, punch caldo.
Avevo imparato qualcosa.
Ma Francesca non me l’ha ancora perdonata!

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Domani un'altra storia: Dello spirito di gruppo...

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