Come un gatto in tangenziale - recensione film

Quanto può durare un gatto (abbandonato) in tangenziale? Poco, pochissimo. È quello che sperano due genitori per i propri figli, alla loro prima infatuazione amorosa, ma provenienti da due mondi diversissimi. L’uno (Albanese) tutto pensieri e cervello, con nobili idee, pensieri e sentimenti, dirige un think thank che realizza consulenze per i politici italiani dell’unione europea, l’altra, la Cortellesi tutta pratica, realtà e sopravvivenza, guida una famiglia composta da lei, il figlio, che tenta di non far cadere nei guai, e due sue sorellastre, gemelle e dallo shopping compulsivo a detta loro, in realtà ladre.
La commedia è simpatica e divertente, ma fa anche riflettere. Non cade mai nel ridicolo pur avendo gag esilaranti e dialoghi spesso incalzanti. Gli attori performano al meglio, descrivendo situazioni “normali” ora per l’una ora per l’altra parte, ma assolutamente sui generis, se viste con gli occhi altrui.
Il film fila via liscio tra le verifiche dei due genitori, Albanese e Cortellesi, che pur diversissimi negli stili di vita percorrono la stessa strada fatta di preoccupazione, solidarietà ed imbarazzo avverso situazioni cui li costringono gli inconsapevoli figli che ovviamente innamorati non si rendono conto. E così seguono i figli, pedinandoli e comparendo all’improvviso come angeli ora per dare un consiglio, ora per sganciargli qualche soldo, ora per fare da taxi.
Certo i due personaggi sono fondamentalmente propensi ad una apertura verso l’altro (mondo) sia pur con difficoltà, e anche se in alcuni momenti perdono le speranze attraverso frasi e battute di chiusura ad una integrazione impossibile.
In questo rapporto tra la vita della periferia e la vita della città, quella definita bene, si riflette l’eterno conflitto tra uomini o meglio tra gruppi di persone, uomini e donne che vivono a contatto, gomito a gomito, ma che spesso si ignorano, non si vedono, ognuno presi dalle proprie vite, dalle proprie storie, dalle proprie manie. Solo quando alcuni tratti delle loro storie si incrociano, magari per un attimo, si rendono conto l’uno dell’altro, s’interrogano, parlano l’un l‘altro con un linguaggio che a tratti non è lo stesso ragion per cui non si capiscono.
Gli attori si introiettano nei personaggi risultando credibili e mai sovraesposti. Degna di nota Paola Cortellesi istrionica coi suoi tatuaggi e vestiti in pelle, nonostante i problemi finanziari della famiglia di borgata, altrettanto credibile Antonio Albanese cui è riservata la parte dell’uomo “normale” secondo i nostri canoni comuni, che non ha bisogno dei paradossi e delle iperboli dei suoi personaggi più famosi e che conosciamo a menadito da Epifanio a Cetto La Qualunque.
Buona la regia e la sceneggiatura, in un film leggero ma non troppo che consiglio a tutti di vedere.

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