L’articolo precedente, di cui questo vuole essere un breve approfondimento, terminava con delle riflessioni inerenti alcuni progetti ad alto contenuto tecnologico per gli scavi di Pompei. Dal 2016 infatti, MiBACT e CNR lavorano alla creazione di Smart@Pompei, il primo parco archeologico ‘intelligente’ al mondo, novità assoluta per ciò che concerne le nuove tecnologie applicate ai beni culturali. Pompeii Sites è poi la app ufficiale per visitare l’area, la quale verrà presto dotata di itinerari in realtà aumentata per poter accedere a ricostruzioni 3D, immagini e disegni durante il proprio tour. Pompei sembra quindi trasformarsi in un interessante laboratorio dove testare le potenzialità di una commistione tra tecnologia e patrimonio culturale: potrebbero i nostri beni archeologici diventare quindi una sorta di volano per la creazione di aree tecnologiche uniche nel loro genere? E’ irreale pensare ad una Silicon Valley archeologica a Pompei?
[ Vesuvius and Pompeii; Robert Duncanson; immagine riutilizzabile]
Tali osservazioni sono motivate da ciò che ricerca e storia economica hanno evidenziato nel corso degli anni. E’ quasi lapalissiano sottolineare l’importanza di una strategia technology driven per garantire oggi più che mai competitività e crescita di una nazione nel lungo periodo; Facebook, Amazon, Google, Uber appaiono continuamente nelle news quasi fossero star del cinema. Nonostante questo, il polo tecnologico in quel lembo di terra tra San Francisco e San Jose culla di buona parte di questi giganti high tech rimane ancora unico nel suo genere e difficilmente imitabile.
[Silicon Valley; Samykolon; immagine riutilizzabile]
Ma una sua pedissequa replicazione nel tentativo di dar vita ad una ‘valle di silicone nostrana’ sarebbe realmente la strada più adatta per sospingere progresso e innovazione? Già durante gli anni 60’ e 70’ i nostri governi, accecati dal mito della grande industria americana, tentarono in modo inane di impiantare importanti stabilimenti siderurgici e petrolchimici in aree depresse del meridione per rilanciarne la crescita. Alcuni esempi, le tristi vicende della Sir di Nino Rovelli e del visionario pacchetto Colombo che portarono solo a un grande scialacquio di denaro pubblico senza ottenere i risultati sperati. A trainare l’economia del Belpaese ci pensava invece la cosiddetta ‘terza Italia’, quella dei distretti industriali formati da tante piccole imprese operanti in uno stesso milieu territoriale, fenomeno principalmente nostrano e spontaneo, studiato con attenzione da economisti del calibro di Giacomo Becattini e Michael Porter. Era questa la configurazione industriale che meglio si confaceva alle caratteristiche dei luoghi, della forma mentis e del capitale umano presenti allora nella penisola, non la grande impresa made in USA.
Alla luce di ciò, Smart@Pompei e Pompeii Sites sembrano essere soluzioni più adatte di altre a stimolare sviluppo tecnologico nell’area in questione: la necessità odierna di innovazione si lega infatti con la vocazione - turistica e archeologica nel caso di Pompei, ma lo stesso varrebbe per tante altre località italiane - del luogo per il quale entrambi i progetti sono stati concepiti. Non quindi un polo scientifico di stampo californiano destinato al fallimento; progresso e ricerca sono sospinte invece da una necessità in situ ben precisa che, nel caso della cittadina campana, si lega indissolubilmente alla fruizione e conservazione del patrimonio. Quale potrebbe essere il ruolo della politica in tutto questo? Facilitare lo stabilirsi di aziende high tech adatte allo ‘scopo’ del territorio e permettere la propagazione degli spillovers positivi derivanti dalla loro presenza al resto del tessuto industriale locale. E’ così irreale pensare ad una Silicon Valley archeologica a Pompei?
[Pompei, interno; immagine riutilizzabile]