Nonna della Notte

Questa storia non l'ho mai raccontata a nessuno.


Nonna Angelina aveva vissuto con noi per alcuni anni, per aiutare mia madre finché eravamo piccoli. L’abbiamo avuta intorno come una seconda mamma, anche se in ultimo affaticata dalla sua malattia, lunga e debilitante. Era una donna semplice, figlia di contadini, figlia di un tempo in cui l’acqua dovevi tirarla su dal pozzo e poi scaldarla nel pentolone di rame nel camino della cucina, sia che volessi lavare le lenzuola con la soda, sia che volessi cucinare la polenta, sia che volessi farti un bagno caldo nella tinozza sul retro. Venuta a Roma dal paese, aveva fatto la portiera, mentre mio nonno era operaio della TETI, poi divenuta SIP, poi TelecomItalia.


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Era ancora un tempo di cui ho visto le propaggini toccare la mia vita bambina: ho un ricordo flebile di visite in campagna dai parenti materni, in cui giocavo nella stalla con coniglietti e pulcini o mi rotolavo con i cuginetti sul prato, passando le ore successive a grattarmi via dalle gambe il pizzicorio delle erbe selvatiche. E, quando arrivava la sera, l’impianto elettrico ancora precario a volte saltava e ci costringeva a cene intorno al tavolone della mia prozia illuminato solo dalle candele, con le quali poi, attraverso una scalona esterna di pietra, salivamo alla nostra stanzona al piano di sopra in cui ci attendeva un lettone di crine, che pizzicava pure lui. Noi eravamo piccoli e tutto ci sembrava -one, così quando, molti anni dopo, accompagnai mia madre a trovare la zia, rimasi stupita di non riconoscere più le cose, che nel frattempo avevano cambiato dimensioni semplicemente restando uguali a se stesse.

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Mia nonna era l’anello di congiunzione con quel mondo, l’aggancio a radici vere che oggi sento dentro, ma che non posso più riconoscere nella loro concretezza. Mia nonna era il sapore del pane fatto in casa col lievito madre, quel pane acidulo e profumato di legna, mantenuto nel canovaccio di cotone per giorni, finché non arrivava il momento di farne ancora.

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Mia nonna era la merenda con pane, burro e zucchero, che mi sembrava un evento, perché il permesso di mettere direttamente in bocca lo zucchero non l’avevamo mica, volevamo forse che ci cadessero tutti i denti?
Mia nonna erano anche le bombette, pasta lievitata messa a friggere a cucchiaiate in olio bollente e cosparsa di miele o di pomodoro e basilico; oppure le leccalecchine improvvisate per farci stare buoni, fatte con zucchero caramellato messo a freddare sul tavolo di marmo unto d'olio.
Mia nonna erano i giochi innocentissimi che stupivano i nostri occhi puri, come quello di Gigino e Gigetto, cioè delle cartine appiccicate con la saliva sull'unghia degli indici che si alternavano coi medi, andando su e giù e nascondendo le cartine per farle immediatamente ricomparire.


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Mia nonna crebbe i miei due cugini, me e mio fratello, creando intorno a tutti noi un'aria che non so definire in altro modo se non "casa". Sbagliava i congiuntivi e noi ridevamo con poca grazia quando il dialetto le faceva scivolare le consonanti o l'accento della frase saliva verso l'alto. Ma quella sapienza silenziosa di impastare, di tessere, di cucire, di pulire, ha tenuto insieme la famiglia intorno a lei fino al suo ultimo giorno, in un letto anonimo d'ospedale, e la sua mancanza ha creato un vuoto che nessun altro ha saputo colmare. Io stavo per iniziare l'università e quindi lei non mi ha mai visto laureata, almeno quaggiù.

Anni dopo ero reduce dal concorso a cattedre, mesi e mesi di studio feroce, otto ore di tema d'italiano, otto di versione dal latino, otto di versione dal greco al latino, un orale. E la sognai.

Lei era seduta nella sua cucina, in penombra, e noi entravamo stupiti e felici di vederla di nuovo lì, di poterla baciare, di poterle parlare ancora; nel sogno io ero così sopraffatta dall'emozione, che non riuscivo a dire nulla, così qualcuno accanto mi suggerì: "Chiedile una grazia..."
(Una grazia? Ma che dici? Ora sta' a vede' che io rompo le scatole a mia nonna beata coi cavoli miei piccoli piccoli...)
Lei mi guardava col suo sorriso birbante e io non riuscivo a muovere le labbra, la mia mano tra le sue e tutto intorno buio.

Mi svegliai con una sensazione mai provata prima per un sogno, una nitidezza di cristallo nella testa e il cuore colmo di calore. Quella giornata iniziò così, felice, anche se non ne parlai a nessuno, men che meno a mia madre, che sarebbe stata travolta dalle lacrime. Quello che accadde poi io non so spiegarlo, anche se con gli anni ho deciso di non cercare spiegazioni, né nei libri di Freud, né in altri, perché una volta tanto volevo tenermi nel cuore quel calore senza inquinarlo con ragionamenti.
Citofonò il postino per consegnare un telegramma, che mia madre mi portò poiché era appunto indirizzato a me.
(Un telegramma...? Che può essere successo? Chi mai potrebbe scrivere un telegramma a me?)
Avevo vinto il concorso e dovevo presentarmi in Provveditorato per scegliere la sede di lavoro, il giorno X all'ora Y. Ce l'avevo fatta, era vero, era scritto a macchina su quella carta grigiognola.
Fu la sua unica visita, in trentacinque anni.


Piccola Nonna della notte, continua a sorriderci nella nostra penombra. Abbiamo così bisogno di sorrisi di sole.


Immagine di @heidi71, di libero utilizzo

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