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Io sono ciò che penso che tu pensi che io sia

Brucaliffo: <<Cosa… Essere… Tu?>>
Alice: <<Bè non so più neanche io signore, mi son trasformata così tante volte oggi che...>>
Brucaliffo: <<Io non capirCi, spiegati meglio...>>

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Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie, L. Carrol, 1865 / riproduzione W. Disney, 1951

Nelle prossime righe proveremo a dare ad Alice un piccolo suggerimento parlando di “Identità”.
Il termine deriva dal latino IDEM ”stesso”, “medesimo” e si riferisce all’essere “identico a sé stesso” e pertanto differente da chiunque altro. Allo stesso tempo il termine rimanda a ciò che mi caratterizza per essere “identico ad altri” o meglio ad alcuni degli altri.
Parliamo infatti di Identità dell’Io, identità personale o individuale, ma anche di identità di genere, identità professionale, identità nazionale, identità etnica, identità religiosa ecc.

Potremmo semplificare questa complessa dimensione psichica descrivendola come caratterizzata dalla sintesi tra:

• l’immagine che ognuno ha di sé e degli altri (in rapporto a desideri, aspirazioni, emozioni e sentimenti);
• le varie appartenenze e i ruoli sociali che vengono acquisiti via via nel corso della vita;
• le immagini che gli altri ci riflettono di noi attraverso valutazioni, conferme e rifiuti.

I tre suddetti aspetti sono strettamente interconnessi tra loro, per esempio: i gruppi a cui apparteniamo e i ruoli in cui ci identifichiamo sono determinati dall’immagine che abbiamo di noi stessi, determinano l’immagine che gli altri hanno di noi e questa parallelamente influenza l’immagine che ognuno ha di sé, in un ciclo continuo e senza sosta.

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fonte immagine @google

L’aspetto cosciente dell’identità è la riflessione, in termini di continuità temporale, che il soggetto fa su di sé, (Io ero, io sono stato, io sono, io sarò…). Praticamente si caratterizza nella descrizione di sé fornita da un individuo.
L’aspetto inconscio dell’identità invece, non ospitando la distinzione psichica tra e oggetto esterno, fa sì che si sviluppi l’ingenuo pregiudizio che il mio modo di interpretare il mondo rappresenti il mondo così com’è anche per gli altri. Ovvero che ciò che piace a me debba per forza piacere anche agli altri, ciò che è immorale per me debba esserlo anche per gli altri, la mia idea politica o religiosa sia senza dubbio quella giusta e così via.

Ecco allora che la nostra identità influenza il nostro modo di pensare, i nostri stati emotivi e, al di là delle esperienze che viviamo, la nostra intera esistenza.

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Ma in che modo avviene ciò esattamente?

Per poter rispondere a questa domanda chiameremo in causa la "percezione selettiva" e la cosiddetta "profezia che si autoadempie":

  • La percezione selettiva è un processo automatico utilizzato dal nostro cervello per non essere costantemente sovraccaricato da informazioni inutili.
    Esso rappresenta il meccanismo che spiega la tendenza a focalizzarsi sui feedback che supportano la propria visione delle cose, ignorando i punti di vista opposti. Questa tendenza a focalizzarci su ciò che conferma il nostro pensiero e il nostro atteggiamento avviene anche per ciò che riguarda la visione e l’opinione che abbiamo di noi stessi (positive o negative che siano).

  • La profezia che si autoadempie è caratterizzata da:
     una falsa definizione della situazione  che determina un nuovo comportamento  che rende vera quella che, originariamente, era una concezione falsa.

Per chiarire cosa avviene nella pratica, raccontiamo l’esperimento condotto dallo Psicologo R. Rosenthal:

Un gruppo di ricercatori sottopose un gruppo di alunni di una scuola elementare ad un test di intelligenza. Successivamente venne selezionato un gruppo di bambini (in modo completamente casuale, senza rispettare l’esito del test), ed agli insegnanti fu detto che si trattava di bambini davvero moto intelligenti.

Quali furono le conseguenze a distanza di un anno? I bambini selezionati (se pur casualmente) avevano davvero migliorato notevolmente il proprio rendimento fino a diventare i migliori della classe.

Ciò avvenne grazie all’influenza positiva degli insegnanti che con il loro essere fermamente convinti delle capacità di quegli alunni segnalatigli, riuscirono a stimolare in essi passione, interesse, autostima ed auto efficacia.

Cosa succede dunque a livello psicologico?

Inizialmente l’immagine di sé viene costruita sulla base dell’immagine di noi, che ci viene riflessa dai nostri “specchi” (che sono le persone per noi più significative):

  • Per un bambino sono sostanzialmente i caregiver ovvero i genitori, i nonni, gli zii, (fondamentalmente chi si prende concretamente cura di lui), gli insegnanti ed educatori.
    Facciamo un esempio:
    Per un bambino, un controllo eccessivo ed una domanda continua di adeguamento alle richieste dei genitori (anziché un’educazione alla capacità di ascoltare i propri bisogni in maniera via via sempre più autonoma), potrebbe comportare la costruzione di un senso di sé che si basi, per lo più, sulle risposte altrui di accettazione e disapprovazione, creando un’ipersensibilità al giudizio ed una tendenza ad adeguarsi ai bisogni degli altri (a prescindere che essi siano o meno in contrasto con i propri).

  • Per un adolescente oltre a caregiver e insegnanti un ruolo fondamentale è giocato dal gruppo dei pari (compagni, amici, fidanzati ecc.).
    Esempio:
    Per un adolescente l’essere considerato incapace, l’essere deriso piuttosto che l’essere maltrattato possono far calare l’autostima e sviluppare un senso di inferiorità con cui la vittima può identificarsi arrivando ad una percezione distorta di sé che alimenta sentimenti di colpa o di vergogna (hanno ragione loro, è vero che sono così… la colpa mia per quello che mi stanno facendo… sono io che sono sbagliato, ecc.) ma anche di paura e di sfiducia (sono tutti così, chiunque può trattarmi così, nessuno prenderà mai le mie difese ecc.)

Parallelamente, il nostro (conseguente) modo di relazionarci agli altri incrementerà tutta una serie di azioni, reazioni e feedback che andranno a confermare, in circolo, tutte quelle dinamiche su cui fondiamo il nostro modo di pensare e il nostro approccio alla vita.

Proviamo a immaginare:

  • se penso di non essere in grado di superare un esame, 1) non avrò la motivazione che mi aiuti a studiare tutto ciò che serve nel migliore dei modi, 2) l’ansia relativa al poter fallire mi porterà a utilizzare più tempo a preoccuparmi che a studiare. In data d’esame allora quale sarà infine l’esito? Probabilmente non certo tra i migliori…

  • Se in generale penso di stare antipatica/o alle persone, come mi comporterò quando entrerò in un nuovo gruppo o conoscerò nuove persone? O come mi comporterò a lavoro se penso che i miei colleghi abbiano qualcosa contro di me? E di conseguenza, come reagiranno le persone che ho appena conosciuto (o i miei colleghi d’ufficio) alla mia diffidenza, scarsa apertura, al mio star sempre sulla difensiva?
    Probabilmente non sarò eletta/o Ms/Mr simpatia…

In questi come in infiniti altri casi andremo a confermare le nostre idee e i presupposti da cui siamo partiti, convincendoci sempre di più che il nostro modo di vedere le cose (e di vedere noi stessi) è quello giusto, se non addirittura l’unico possibile.

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Conclusioni

L’individuo assume in sé (in modo più o meno stabile ed esteso) i tratti mentali, affettivi e comportamentali del suo ambiente attraverso un processo chiamato identificazione, per il quale apprende, su sé stesso e sul mondo, ciò che il proprio gruppo di appartenenza gli insegna.

L’identità può esprimersi a livello dell’individuo, del gruppo, della società, può subire trasformazioni nel tempo e, ovviamente, può entrare in crisi.
Essa regola l’autostima, l’autoefficacia, le aspettative di essere accolto e apprezzato dagli altri, la soddisfazione di sé piuttosto che i sentimenti di inadeguatezza. Regola i nostri rapporti con gli altri e da essi è regolata in un circolo di continui feedback reciproci positivi e negativi.

La conquista dell’identità è dunque un processo che attraversa tutta la vita e si costruisce nell’interazione e nel rapporto con l’altro e al contempo costituisce il presupposto di ogni reciprocità e di ogni scambio fertile e rigoglioso.

E allora, veniamo a noi… in che modo siamo stati abituati (dai nostri genitori, dai nostri insegnanti, dai nostri compagni di vita) a pensare noi stessi? In che modo ci poniamo di fronte alle situazioni (vecchie e nuove)? Su quali aspetti siamo abituati a focalizzare la nostra attenzione e cosa invece tendiamo a tralasciare? Il nostro bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?

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Immagine @TheWetPaletteStudio