Sibeluna

Questo racconto è stato scritto per partecipare a The Neverending Contest n° 101 S1-P1-I3 di @storychain sulla base delle indicazioni di @storichain

Tema: Robot
Ambientazione: Miniere di ghiaccio sulla luna


Pixabay Licence

Sibeluna

Sorgeva un nuovo giorno, ma Norbert, come in ogni istante della sua miserabile vita, avrebbe preferito non svegliarsi una volta per tutte. Si diresse al bagno, di qualche grado più freddo della camera da letto, dove come ogni mattina iniziava la sua sofferente discesa verso l’inferno di ghiaccio. Nei tempi prestabiliti espletò i preparativi, quindi passò in diciassette minuti alla camera di vestizione. Le porte a chiusura ermetica si chiudevano alle sue spalle in una nuvola di vapore, mentre d’avanti a sé le strette cabine di raffreddamento progressivo lo costringevano ad avanzare verso il gelo che lo attendeva. I propulsori termici gli spruzzarono sul corpo nudo nuvole di tessuto tecnico, che immediatamente assunse consistenza avvolgendolo da capo a piedi nell’abbigliamento isolante da lavoro, concedendogli un breve istante di sollievo prima della camera successiva: il raffreddamento rapido. Qui Norbert sostava ventuno minuti, aspettando che la temperatura passasse dai dieci ai meno centoquindici gradi centigradi. Durante quegli interminabili momenti, quando nemmeno gli abiti autoriscaldanti servivano a non fargli patire la morsa del ghiaccio, non faceva che ripensare alla propria esistenza, maledirsi e desiderare di morire. Infine, la porta dell’inferno si apriva e Cerbero in persona gli dava il benvenuto. Il cane a tre teste era un enorme marchingegno dotato di un triplo processore, in grado di adempiere simultaneamente ai compiti di controllo, gestione e programmazione delle miniere di ghiaccio. D’avanti a lui si estendevano centinaia di chilometri di distese di ghiaccio che, dalla sua postazione, doveva scalpellare in blocchi che i robot avrebbero poi portato via. Dieci ore di lavoro; una brodaglia calda ogni tre ore per tenerlo in vita e un pasto liofilizzato a fine giornata. Neanche un’anima con cui parlare, solo quei maledetti robot simili a giganteschi insetti piatti e disgustosi, che venivano a portare via i blocchi pronti con le loro pinze aguzze che li caricavano sul dorso. E poi Cerbero, Cerbero ovunque. I suoi occhi apparentemente ciechi scrutavano ogni cosa, i suoi sensori sentivano ogni dettaglio, i suoi calcoli rendevano vano anche solo il pensiero di cambiare quella punizione, persino barattandola con la morte. In quei mesi, forse anni senza fine trascorsi nella Sibeluna (questo il nome scelto dai terrestri per la colonia penale di ghiaccio sul lato nero della Luna, dove venivano inviati coloro che meritavano qualcosa di peggio della pena capitale), quante volte aveva sognato la morte, quanto l'aveva desiderata! Norbert aveva fatto alcuni tentativi per sfuggire alla sua condanna, provando a farsi morire di fame o tacendo una malattia ai computer di checkup quotidiano nella speranza che si aggravasse divenendo fatale. Non era servito a niente: Cerbero lo osservava captando ogni singolo parametro vitale ed intervenendo anche con la forza affinché il prigioniero restasse sano, ben nutrito ed in buona salute, così da perpetrare la tortura e la fatica quotidiane il più a lungo possibile.

Le giornate si susseguivano tutte uguali, nel ghiaccio e nel freddo, ma le notti erano anche peggio: finito il lavoro, Norbert attraversava all’inverso le stesse camere del mattino, fino a tornare nella sua cella, a diciotto miseri gradi, cenare e coricarsi. Nessuno svago, nessuna distrazione, nessuna attività, solo dormire o lavorare, a seconda che fosse notte o giorno. Non sapeva nemmeno se la notte e il giorno fossero ancora tali, se le ore venivano misurate come sulla Terra, se il tempo trascorresse nella stessa maniera che conosceva lui: nessun orologio, nessun calendario. Le miniere erano sotterranee per mantenere costanti le temperature del ghiaccio e Norbert non vedeva la volta celeste da così tanto tempo che iniziava a dubitare della sua esistenza. Luce e buio erano solo concetti artificiali gestiti dalle macchine, che scandivano il sonno e la veglia del prigioniero. Norbert sapeva che esistevano altri prigionieri come lui, ma non li aveva mai incontrati né conosceva la struttura dell’enorme labirinto di miniere lunari. Conosceva solo quel che vedeva, i robot non interagivano con lui e lui non parlava con nessuno. Una volta ogni sei mesi gli era concessa una chiamata olografica con i suoi familiari, ma ormai da due anni a quell’appuntamento non si presentava più nessuno, nemmeno suo fratello. Grazie a quelle chiamate che scandivano il tempo il quel luogo senza tempo, sapeva che erano trascorsi quattro anni e mezzo, e le attendeva per avere l’occasione di parlare con altri esseri umani. La solitudine era tale che i primi tempi per non impazzire cantava a squarciagola; tuttavia i mesi e la fatica ormai lo schiacciavano al punto che poteva trascorrere delle intere settimane senza aprire bocca per usare le corde vocali. Anche i sogni, nelle rare volte in cui ne faceva uno, erano incubi silenziosi nei quali veniva intrappolato dai ghiacci e viveva per sempre ibernato in un gelido limbo.

Questo incubo si ripeteva giorno dopo giorno dopo giorno, fin quando giunse il momento della sua ultima chiamata olografica. Attendeva in camera il collegamento con l’operatore terrestre che gli avrebbe comunicato, come sempre, che nessuno era in attesa di mettersi in contatto olografico con lui. Se fosse stato fortunato, quell’operatore si sarebbe mosso a compassione ed avrebbe scambiato qualche parola col detenuto, rendendolo felice per qualche minuto. In trepidante attesa, col cuore in gola, Norbert attendeva quel contatto, che tuttavia tardava a giungere. Al termine del tempo stabilito, infine, una voce registrata, inespressiva, fredda e metallica, sostituendo il solito operatore lo avvisò che essendo la quinta volta che nessuno effettuava la chiamata olografica semestrale cui aveva diritto, questa veniva revocata e sospesa, e chi avesse voluto in futuro mettersi in contatto con lui avrebbe dovuto richiedere il permesso al Ministero della difesa di Austrasia.
Norbert rimase talmente interdetto dalla notizia, che non si accorse del viraggio di luce dal giallo al rosa della sua stanza. I minuti passavano e il prigioniero venne risvegliato dallo shock dalle piccole scosse elettriche che gli colpivano le membra: solo allora si accorse della luce rossa nella camera, segno che doveva immediatamente lasciarla ed avviarsi al lavoro della giornata. Incurante delle scosse, che si sarebbero fermate solo dopo aver varcato la soglia della stanza successiva, si prese la testa fra le mani, e schiacciandosi le tempie con quanta forza aveva cacciò un urlo spaventoso e disperato che lacerò l’aria immobile e muta e gli squassò il petto. La luce rossa iniziava a virare verso il cupo e le scosse si facevano più prolungate e dolorose, per cui il corpo di Norbert, ormai svuotato di ogni connotazione umana e reso un guscio freddo e arido, si alzò meccanicamente, dirigendosi verso il bagno, poi verso la vestizione, il raffreddamento ed infine alle miniere. I suoi gesti erano lenti e automatici, il corpo muscoloso si muoveva da solo, mentre la mente era quasi del tutto annientata, praticamente inesistente.

Abbandonato, solo, disperato, vuoto, inaridito, isolato: sentiva ogni singola fibra del proprio essere gridare all’unisono “basta!” desiderando la fine di quell'eterna tortura. Le lacrime gli si seccavano sul viso coperto di tessuto, tintinnando a terra come piccole perline di ghiaccio, finché anche gli occhi coperti dalla visiera si disseccarono e non ebbe più nulla da piangere. Era trascorsa la prima metà della giornata e un robot insetto giunse alla miniera per caricare il blocco appena estratto. Fu un istante: Norbert venne penetrato con la coda dell’occhio dal bagliore delle lame a tenaglia del robot da carico, che si aprivano per afferrare il blocco. Folgorato dall’idea di quanto fossero appuntite ed affilate e devastato dal dolore di quella sconfinata ed infinita solitudine, balzò di scatto all’indietro ponendosi fra il ghiaccio da lui stesso estratto e l'appuntito perno robotico che doveva sollevarlo e si fece trafiggere al petto. Il dolore fisico fu il sollievo più grande mai provato negli ultimi anni, e cullato dal tepore del suo stesso sangue perse i sensi, avviandosi verso la tanto agognata morte.

Riaprì, suo malgrado, gli occhi, sperando di trovarsi nell’aldilà. Un paio di occhi viola e oro lo osservavano mentre una voce nella sua testa eppure appartenente senza dubbio alla creatura davanti a lui gli chiedeva: “Buongiorno esperimento alfa sette uno nove, come ti senti?”. “Dove sono?” chiese. “Nella Sibeluna, ovviamente, sei il nostro esperimento più longevo sulla resistenza umana alla mancanza di stimolazione da parte dei propri simili. Il tuo Governo ti ha ceduto ai Nibiriani per condurre degli studi sulla tua specie. Ma non preoccuparti di questo, ti verrà spiegato tutto a tempo debito. Cerbero! Iniziamo la fase 3 dell’esperimento, prego.” E con queste parole Norbert, che non aveva ancora assunto del tutto coscienza di sé, percependosi solo in una fluttuante impotenza, nudo e collegato a innumerevoli macchinari, venne assalito da un sonno improvviso e perse nuovamente conoscenza.

H2
H3
H4
3 columns
2 columns
1 column
7 Comments
Ecency